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COMBATTERE IL BULLISMO IN AZIENDA CONVIENE A TUTTI

Bullismo e mobbing due forme diverse di aggressività. Le sette caratteristiche del bullismo. Il fenomeno del bullismo è ovunque in crescita nelle aziende. Il lavoro da remoto aumenta l’aggressività? Le aziende devono affrontare il problema del bullismo che incide, e pesantemente, anche sulla produttività

Bullismo in Azienda
Bullismo in Azienda

Non sappiamo se il fenomeno del bullismo nelle aziende italiane venga studiato a sufficienza. Ne dubitiamo, anche perché ben altri sono i problemi ai quali le imprese devono far fronte in questo periodo e quelli che riguardano i rapporti con e tra i dipendenti spesso finiscono in secondo piano.

Quando si parla di conflitti o “aggressioni” sul luogo di lavoro, spesso si confondono due concetti, mobbing (molestie) e bullying (bullismo). Prima di affrontare l’argomento, crediamo perciò che sia necessario chiarire meglio i termini del problema.

Differenza tra mobbing e bullismo in azienda

Il mobbing si riferisce all’atteggiamento di un gruppo di collaboratori a qualsiasi livello. Si coalizzano contro una persona (di pari livello, inferiore o anche superiore), tormentandolo, vessandolo in modi non violenti ma psicologicamente discriminatori.

Il bullismo, invece, suggerisce l’idea di un individuo ostile e prepotente, di solito un manager, che ha un atteggiamento aggressivo, di tipo verbale o fisico, nei confronti dei suoi subordinati.

Entrambe le forme di aggressività sul lavoro meritano di essere analizzate. Danneggiano gravemente il soggetto che viene preso di mira e ammorbano il clima generale di relazioni sociali all’interno di un’azienda, minandone la produttività.

Il bullismo: sette caratteristiche

Qui, però vorremmo soffermarci in particolare sul bullismo, segnalando sette caratteristiche che individuano tale comportamento deviante, in base alla ormai ampia letteratura sul tema.

  1. Il bullo è un individuo crudele e prepotente che detiene un certo potere e rende la vita difficile a uno o più subordinati o colleghi.
  2. I bulli e le vittime possono essere di entrambi i sessi anche se lo stereotipo prevalente è maschile.
  3. Il bullismo è solitamente un superamento o un abuso di autorità.
  4. Il bullismo è una violazione dei diritti del lavoratore. Una negazione della dignità umana garantita dalla legislazione, dai codici dei diritti umani e dai contratti collettivi.
  5. Chi subisce questo tipo di trattamento deve evitare iniziative individuali, procedendo a denunce da presentare attraverso i canali appropriati, nel rispetto della catena di comando organizzativa.
  6. Gli attacchi del bullo possono comportare punizioni formali, degradazioni, demansionamenti. Consistono principalmente in attacchi verbali offensivi che danneggiano l’autostima e l’equilibrio emotivo della persona colpita, causando un deterioramento della sua salute psicofisica.
  7. Ciò che definisce il livello di aggressività che le azioni di bullismo possono raggiungere, è soprattutto l’esperienza della persona che le subisce. La sua percezione dell’ostilità profonda e umiliante di cui è vittima.

Cosa dicono le ricerche sul bullismo

Il Workplace Bullying Institute (WBI) è una istituzione statunitense che lavora da 25 anni sul problema della prevenzione e correzione delle condotte abusive sul lavoro. Attraverso l’educazione del pubblico, la formazione di professionisti, la realizzazione di indagini e ricerche scientifiche nazionali.

Alcune ricerche svolte da questo istituto negli Stati Uniti nel 2021 confermano che il 30% dei lavoratori statunitensi ha dichiarato di essere (o essere stata) vittima di bullismo. In netta crescita rispetto alla stessa rilevazione di cinque anni prima (19%).

WBI sembra conscio del fatto che la soluzione del problema non stia tanto nella “gestione della rabbia” delle persone che manifestano comportamenti da bulli ma che siano necessarie modifiche al sistema che è il terreno fertile che consente alle persone iperaggressive non solo di sopravvivere ma di prosperare.

Da questa prospettiva possiamo chiederci legittimamente: “Cui prodest?”, cioè a chi conviene il bullismo? Chi ha condotte offensive, intimidazioni, aggressioni nei confronti di un’altra persona lo fa sempre per uno scopo (carriera, potere, ma anche per puro sadismo) e può essere un collega pari grado, anche se è più frequente che sia un superiore.

Questo atteggiamento, quindi, indipendentemente da chi lo pratica, porta solo a risultati negativi. Per le persone che lo subiscono, naturalmente, ma anche per chi ne è testimone, e, come abbiamo già detto, per le stesse aziende che rischiano di diventare meno competitive.

Il bullismo rende “tossici” i luoghi di lavoro

Il bullismo infatti rende i luoghi di lavoro sempre più “tossici”. Questo sarebbe uno dei motivi che ha scatenato il fenomeno, per alcuni inspiegabile, della “great resignation” negli USA.

Cioè le dimissioni in massa dei lavoratori, insoddisfatti – più che dei loro compensi – dell’atmosfera opprimente che vivono nei loro luoghi di lavoro.

In altri termini, se in un’azienda si tollera o si minimizza il bullismo (sotto qualsiasi forma si manifesti) si crea un contagio negativo che influenza anche coloro che non ne sono rimasti invischiati. Il clima peggiora rapidamente e tutti percepiscono tale cambiamento.

A cosa è dovuto questo aumento del bullismo sul posto di lavoro? Secondo alcuni ricercatori una delle cause potrebbe essere lo smart working: “Quando si elimina il faccia a faccia, e la supervisione diventa, per così dire, “disincarnata”, il livello di aggressività aumenta considerevolmente”. E’ provato che le persone sono meno propense ad autocensurare alcuni comportamenti quando si trovano on line.

Ricorso allo smart working e disinibizione on line

E’ il cosiddetto fenomeno noto come “disinibizione online”. Questo non vale solo quando le persone operano nell’anonimato. Ma anche quando si conoscono ma lavorano a distanza e in comunicazione asincrona. Insomma, quando ci si trova dietro ad uno schermo si è più propensi a dare sfogo a questo tipo di comportamento. Che può diventare conflittuale e sfocia in atteggiamenti di vera e propria inciviltà informatica.

Probabilmente, la pandemia costringendo ad accelerare i tempi di applicazione di questo sistema di lavoro da remoto, o ibrido, ha spinto le organizzazioni a non gestire con la necessaria attenzione e cautela questa innovazione.

Il lavoro da remoto ha reso in un certo senso più liberi i dipendenti. Ma ha creato nel contempo qualche problema a supervisori o manager che si sentono indeboliti nel loro ruolo e costretti ad aumentare la propria aggressività per ribadire la propria autorità.

Il problema è che non “si stacca mai” dal lavoro…

D’altro canto, il lavoro da remoto ha reso sempre più labili i confini tra ufficio e casa. Diventa sempre più difficile separare la vita personale da quella lavorativa. Le tensioni nei rapporti con colleghi e superiori che prima era possibile accantonare una volta rientrati a casa. Ora seguono ovunque il lavoratore e lo condizionano molto più pesantemente, favorendo l’intrusione in aree più sensibili degli aspiranti bulli.

C’è anche un altro motivo che sta alla base della crescita del fenomeno del bullismo. Oggi, con l’avvento di una maggiore sensibilità su questi temi, è aumentato il numero di collaboratori che reagiscono a tali forme di aggressione e sono pronti a denunciarle. superando l’imbarazzo o la connivenza frequente in passato.

Un ruolo importante in tal senso ce l’ha anche la nuova generazione che è cresciuta recependo a scuola i messaggi anti-bullismo e non è più disposta a minimizzare certi atteggiamenti. Oltretutto, i giovani oggi tengono molto al rispetto per il loro lavoro e, più che al guadagno, sono attenti a preservare un sano equilibrio tra lavoro e vita privata.

Le aziende non sempre sono sensibili al tema del bullismo

Un altro dato che ci arriva da un sondaggio effettuato lo scorso anno nel Regno Unito preoccupa non poco. La metà dei lavoratori britannici è convinto che la propria organizzazione di lavoro non prenda sul serio le denunce di bullismo. L’intervento dei datori di lavoro per bloccare questo fenomeno, nel 63% dei casi ha addirittura contribuito a rafforzare l’abuso.

Non solo, infatti, veniva negata l’esistenza di comportamenti scorretti, ma in alcuni casi essi erano giustificati, o addirittura incoraggiati, considerandoli legati a una certa cultura della competitività richiesta dal mercato.

Da notare, che il fenomeno del “bullismo” in genere cessa non tanto per l’allontanamento dell’autore del reato, quanto per il cambiamento della politica dell’azienda. Che si orienta verso il rispetto delle persone e dei loro ruoli e favorisce la creazione di un clima nel quale il bullismo, sotto qualsiasi forma si manifesti, sia considerato sempre inaccettabile.

a cura di – Ugo Perugini

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